#AMOLABICI – Attentati di Parigi e terrorismo, il ciclista riflette
Siamo tutti attoniti, impressionati da questi giorni, tutti (o quasi) preoccupati da quello che sta accadendo. Giovani che diventano bombe umane, che accettano di sacrificare la vita per portare il terrore, per uccidere altri giovani, altri esseri umani. In nome di Dio. E ci chiediamo come possano farlo, come possano credere in tali follie. Eppure ci credono al punto da sacrificare la loro stessa vita. Mi chiedo perché giovani cresciuti nei nostri Paesi europei, anche se arabi di origine, arrivino a tanto. Quale vuoto hanno dentro? Da dove arriva questo vuoto riempito dal fanatismo folle?
Chiediamocelo anche noi ciclisti, noi che crediamo nella necessità del sacrificio per arrivare a un risultato. Noi che crediamo al valore del gruppo, del pedalare insieme, e poi della sfida fatta sulla base del sacrificio, dell’onestà, del dare il meglio di noi stessi. Della preparazione. Noi ciclisti che affrontiamo il sudore e la fatica, che anche lottiamo fra noi per arrivare una manciata di secondi prima, ma con lealtà, guardando in faccia l’avversario e stringendogli la mano. Chiediamocelo noi ciclisti che siamo sempre pronti a dare una spinta all’amico in difficoltà o a fermarci per offrire una camera d’aria a chi è rimasto a piedi.
Chiediamocelo. Quale disperazione deve esserci per accettare l’idea di uccidersi. Per accettare di uccidere tanti innocenti. Da dove viene?
Chiediamocelo noi ciclisti che ci entusiasmiamo come bambini davanti aVincenzo Nibali che vince il Giro di Lombardia partendo in discesa con l’abilità di un fuoriclasse. Come ci siamo entusiasmati per Pantani e per Gimondi e per Coppi e per Binda e indietro, fino alle radici della nostra storia ormai lunga ben più di un secolo.
Noi ciclisti che crediamo nei valori di fondo della vita, nella necessità di aiutarsi fra noi, nell’idea che siamo tutti fratelli, bagnati dello stesso sudore, affranti dalla stessa fatica, animati dalla stessa speranza di fare il meglio che si può. Noi ciclisti che sappiamo che nella vita quello che conta è volersi bene. Noi ciclisti che capiamo che gli ultimi vanno aiutati, che non è giusto correre dietro alle illusioni, vendere illusioni ai nostri ragazzi, privarli delle cose veramente importanti. L’illusione che tutto sia facile nella vita, che tutto si raggiunga semplicemente perché lo si vuole. Come suggeriscono i media, le pubblicità.
Chiediamocelo noi ciclisti che sappiamo che la verità della vita, la bellezza della vita non è una bicicletta fiammante, ma il sudore e il cuore grande di chi ci pedala sopra. Che la verità della vita non è avere una Porsche lucida e potente, ma il sorriso che riesci a regalare a un amico in difficoltà.
Chiediamoci perché. E ricordiamoci delle nostre radici, del grande dono che duemila anni fa un grande re ci ha fatto sulla croce, un re coronato di spine. Quel dono ce l’abbiamo dentro al cuore, ognuno di noi. Sui pedali e giù dai pedali.