#AMOLABICI – In bici alla ricerca del primo amore
Mio padre lavorava in una fabbrica siderurgica e la fabbrica aveva delle case per gli operai. Erano quattro palazzine lunghe, alte tre piani. Tra una palazzina e l’altra c’era una vialetto con una striscia di prato e qualche albero. Sono venuta grande lì. Giocavamo per interi pomeriggi, eravamo tanti bambini, quindici, venti. Giocavamo a nascondino, giocavamo a toc. Giocavamo a Napoleone. A me piaceva un ragazzino, si chiamava Alberto. Mi piaceva tanto, al punto che sarei fuggita con lui da qualche parte, su un’isola, in campagna. Alberto d’estate andava in collina, due mesi, un paese a pochi chilometri dalla città. Un giorno decisi di andare a trovarlo. Era un grande amore, ma nessuno di noi due ebbe il coraggio di dichiararsi. Avevamo dieci anni.
Dissi a mio padre che volevo fare un giro in bicicletta, lui accettò di accompagnarmi con il motorino. Mio padre si chiamava Aquilino. Io pedalavo, lui guidava accanto a me e poi cominciò la salita, io non volevo mollare, ma in alcuni tratti proprio non ce la facevo e allora mio papà mi spingeva, appoggiava la mano alla mia schiena dolcemente e io mi sentivo leggera e la pedalata era facile. Mio papà era biondo e aveva gli occhi azzurri ed era una persona dolce. Troppo dolce per mia madre che invece era dura come i sassi.
Fino a quando non ha perso il lavoro, mio padre era stato un buon padre, una difesa contro la freddezza di mia madre. Quella volta che sono andata in bicicletta al paese sulla collina è stata forse la giornata più bella. Forse l’ultima giornata della mia infanzia. C’era un gran sole caldo. Sulla salita strinsi i denti, con qualche spinta discreta arrivammo in paese, in piazza. Ricordo la chiesa, una bella chiesa antica e una grande piazza tutta acciottolata. Sotto il sole, sudavo come una fontana. Alberto era lì, da qualche parte. Ma dove? E adesso che ero lì, avevo davvero voglia di vederlo? Avevo il coraggio di incontrarlo? Che cosa avrei potuto dirgli, che passavo di lì per caso? Mi venne la paura. Volevo scappare. Guardai mio padre in sella al suo Motom verde e gli dissi che volevo tornare in città. Rimasi a fissare la piazza. Chissà che cosa pensava: sapeva che ero innamorata di Alberto?
Mi vergognavo. Volevo che mi abbracciasse.
C’era un gran sole caldo e le ombre delle case cominciavano appena ad allungarsi. Mio padre Aquilino mi guardò con calma, disse: “Non cerchiamo Alberto?”. Risposi che ero stanca, che era meglio tornare.
Penso che quel giorno del giro in bicicletta sia stato il più bello della mia infanzia, nonostante tutto. Lontana da mia madre. Eravamo su al paese, in piazza, sotto il sole, a mio padre ho risposto: – Sono stanca. – Non volevo più vedere Alberto. Mi vergognavo. Mio padre ha detto: – Beviamoci un’aranciata. – Ho provato un raggio di felicità. Ci siamo seduti a un bar che c’era prima della piazza della chiesa, il tavolino era di formica rossa, me lo ricordo benissimo, quella San Pellegrino fresca, quel bicchiere bagnato per via della condensa, quello sfrigolio in bocca, il liquido dolce. Me lo ricordo come fosse adesso. E’ passato più di mezzo secolo. Certe cose non passano mai. Mio padre biondo seduto accanto a me al tavolino, le spalle appoggiate al muro caldo. L’aranciata per noi era un lusso, anche per questo la gustavo. Non ricordo che cosa abbiamo detto, però ricordo quel senso di sole, di luce. Il sapore dell’aranciata. Ero beata. Dopo che abbiamo finito l’aranciata mio padre è entrato nel bar e ha pagato e io sono rimasta fuori e con gli occhi ho esplorato la piazza. Magari vedevo Alberto. Mio padre è apparso sull’ingresso agitando quella specie di velo di nastri di plastica, sgargianti, che pendevano sottili. Erano contro le mosche. Non si usano più, non li ho più visti. Mio padre è salito sul motorino e io in sella e c’era da godersi la discesa. Feci qualche pedalata, superammo la piazza, le case finivano e sulla destra c’era un campetto di calcio, in sabbia, e c’erano tre ragazzini che stavano giocando.
Uno era Alberto.
Ricordo benissimo il tuffo al cuore, proprio come se per un momento mi fosse mancato il respiro. Non è vero che i bambini non provano emozioni grandi, non fanno progetti, non hanno i loro ragionamenti e le loro immaginazioni. Io fantasticavo di vivere con Alberto. Di baciarlo.
Era lì davanti ai miei occhi. Con una maglietta a strisce nere e azzurre. Quella dell’Atalanta. Era lì con il pallone e due amici e mio padre era avanti con il motorino e la bicicletta aveva preso una certa velocità. In quel momento ho avuto paura. Paura che mi vedesse. Paura di venire smascherata. Che cosa ci facevo lì? Che cosa gli avrei detto?
Io ero lì con la mia piccola bicicletta rossa perché amavo quel bambino che si chiamava Alberto.
Dovevo fuggire.
Volevo fermarmi e correre nel campetto.
Non continuai a pedalare e non mi fermai. Lasciai che la bicicletta, da sola, mi portasse lontano da lì.
Ci siamo persi, non l’ho mai più rivisto. Chissà che vita ha avuto.
Ma qualche volta ci penso, ripenso a quel bambino con la maglia dell’Atalanta sul campetto in sabbia sotto il sole e al mio cuore che batteva così forte e un senso di tenerezza ancora mi invade tutta.