#AMOLABICI – La storia del Gino Gotti, il corridore un po’ goffo, ma forte…
È una mattina di gennaio, splende un bel sole gelido, piazza Pontida gioca con le luci e le ombre dei portici ed è sempre la piazza più bella di Bergamo bassa. I coniugi Pendezzini camminano a braccetto, con la calma dell’età avanzata. Si parla del più e del meno e poi si parla di ciclismo. La signora dice: “Io sono Gotti, era Giovanni Gotti, ma lo chiamavano il Gino, il corridore ciclista! Quello un po’ goffo, ma forte…”.
Il cervello corre fra gli anni e le parole lette nel libro di Aurelio Locati, “Cent’anni di Sport a Bergamo”. Giovanni Gotti, certo. Fu per lui che venne coniato quel modo di dire bergamasco, semplice ed efficace: “Crapa de Goti”, e chissà se il cognome Gotti qualcosa c’entra qualcosa con l’antico popolo barbaro. Comunque quando oggi si dice “Crapa de Goti” si intende un certo tipo di persona goffa, dall’andatura un pochino ridicola, magari persona buona e forte.
Così era Giovanni Gotti, anche lui della stirpe dei forti ciclisti della Val Brembana, anche lui proveniente da Sedrina come Gimondi e come Belli. Antonio Pesenti era di Zogno, Ivan Gotti di quelle zone. Giovanni Gotti cominciò a correre quando l’astro di Antonio Pesenti, vincitore del Giro d’Italia del 1932, era calante e tra i bergamaschi ancora si faceva onore il Gino Tramontini.
Gotti nel Giro d’Italia del 1934 vinse la maglia bianca di primo degli isolati. Era della classe 1912, non aveva ancora compiuto di ventidue anni. Fin da ragazzino in bicicletta con il padre raggiungeva i cantieri dove lavorava come manovale e poi come muratore. L’allenamento se lo faceva andando su e giù lungo la valle, prima che uno sport, la bicicletta era un mezzo necessario al lavoro. Che qualche volta poneva in evidenza delle qualità, una forza particolare. Se ne accorse anche il padre di Giovanni.
Quando prese un buon lavoro nel piacentino, il padre regalò una bici di seconda mano al figlio, una vecchia bici da corsa con le ruote in legno. Giovanni si iscrisse a una gara per non tesserati, cento chilometri su e giù nelle valli appenniniche: arrivò con il gruppetto dei migliori e allo sprint si piazzò terzo. Incoraggiante.
L’anno dopo venne accettato nell’Ucb, Unione Ciclistica Bergamasca, glorioso sodalizio. E partecipò al “Gran Premio Dei” di Cremona, in tre tappe. Arrivò terzo. Il 26 giugno la prima vittoria in una corsa organizzata dal Dopolavoro Colognola: 117 chilometri, compresa la Val Borlezza. Quell’anno il goffo, ma fortissimo Gotti vinse ben otto gare su ventidue disputate. “E’ brutto in bicicletta, ma è un brutto che fa paura!”. Commentò uno dei suoi amici ciclisti. Nacque il modo di dire. “Crapa de Goti”.
Nel 1934 era al via come “libero” al Giro d’Italia. Il mitico giornalista Orio Vergani lo notò, gli dedicò un articolo, un’intervista in corsa, scrisse: “Ha ventun anni, sei fratelli e tre sorelle. -Avete un po’ di terra?, “No, siamo poveri”. Si accelera perché siamo un momento in ritardo. Poi si rallenta. Il caldo vien giù a piombo. – Ti piace fare il Giro d’Italia?”. “Sì”. – Perché? – Tace, non ride più. “Perché vado a Trieste. Sapevo che c’era tappa a Trieste. E allora mi sono iscritto. Almeno a Trieste ci voglio arrivare… Mio padre era muratore. Quest’anno ha lasciato il paese per andare a lavorare a Trieste. Aveva 53 anni. E’ morto là in tre giorni, per una polmonite presa in cantiere. Non ho fatto in tempo a vederlo vivo. E adesso a Trieste voglio andare a trovarlo”. Gotti cerca di trattenere il pianto, ma non può e adesso tace e singhiozza, in coda al gruppo, continuando a pedalare a gambe larghe per la valle sconosciuta”.
E il povero Gotti, lo sgraziato Gotti, nella Campobasso-Teramo sferrò il suo attacco, come Pesenti due anni prima, e sconvolse la classifica del Giro. Lui si piazzò al quarto posto nella generale. Alla fine, Giovanni Gotti sarà quinto. Accoglienze trionfali a Bergamo e nel suo paese. Venne selezionato dal commissario tecnico della nazionale, Girardengo, per il Tour de France. A quel Giro guadagnò 12.375 lire, una bella cifra. Diede tutti i soldi alla mamma con un incarico preciso: traslare la salma del papà, portarla a Sedrina. Disse: “Non posso dimenticare che anche lui aveva speso i suoi risparmi per la mia prima bicicletta”.
Ma sì, sono storie che commuovono, che non si devono perdere.
Al Tour nonostante una terribile caduta e tanta sfortuna, arrivò ventiquattresimo. Nel 1935 vinse quella che allora era forse la classicissima, la Milano-Torino, la cui prima edizione si svolse nel 1876! Vinse anche la Milano-San Pellegrino battendo allo sprint Antonio Pesenti e un giovane, un tal Gino Bartali. Gli ultimi sprazzi di luce nel mondo del ciclismo furono quelli del Giro del 1940, quando Gotti si batté ancora come un leone. Vinse un giovanissimo Fausto Coppi. Poi venne il buio della guerra.
Giovanni Gotti, ma tutti lo chiamavano Gino, aprì un bar trattoria in via Palma il Vecchio. Aveva ereditato dai suoi genitori la passione per la lirica e aprì le porte a cantanti, artisti, amatori melomani. Il suo caffè divenne punto di riferimento, luogo di incontro di tutti gli appassionati. E così bravi e meno bravi cantavano arie della Traviata o della Lucia di Lammermoor o della Boheme accompagnati dal pianoforte mentre Gino Gotti ascoltava, seduto in un angolo del suo caffè, e un pochino sorrideva.
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Paolo Aresi – giornalista e scrittore.
Dal 2015 cura la rubrica “#AMOLABICI, le Cicloctorie di Paolo Aresi” sul sito www.bicitv.it.
Il ciclismo è una sua grande passione, ha trascorso l’infanzia tifando Felice Gimondi.
Pedala con una certa energia, ma il poco tempo a disposizione lo penalizza.