Paolo Aresi – giornalista e scrittore.
Dal 2015 cura la rubrica “#AMOLABICI, le Cicloctorie di Paolo Aresi” sul sito www.bicitv.it.
Il ciclismo è una sua grande passione, ha trascorso l’infanzia tifando Felice Gimondi.
Pedala con una certa energia, ma il poco tempo a disposizione lo penalizza.
#AMOLABICI – La mia Felice Gimondi, bella sgroppata, immersi nella umanità ciclistica
Ci eravamo lasciati alla vigilia della Gimondi e oggi sono qui, in questa mattina di sole meraviglioso, seduto al tavolo e fuori dalla finestra ci sono i condomini, ma anche delle fette di azzurro. E’ passata già quasi una settimana. Il tempo consente il divenire, ma è anche il nostro tiranno. Nel tempo sboccia la vita, ma il tempo non guarda in faccia a niente e a nessuno, è una ruota che macina tutto. E la nostra memoria si oppone alla logica del tempo che cancella ogni cosa. Gli uomini ricordano non solo le loro vite, ma vanno a cercare di capire che cosa sia accaduto anche quanto nessun uomo camminava sulla faccia della Terra, lontano nei milioni di anni.
E allora noi ricordiamo. Che una settimana fa sotto un cielo grigio in quattromila siamo partiti alla Gimondi, al Lazzaretto. E che in questo luogo, quattrocento anni fa, c’era gente che piangeva e sdolorava e moriva e di cui non esiste più traccia; rimangono le pietre a ricordarci il passato, ecco perché le pietre sono importanti. Ricordiamo. Che all’inizio, anche prima di partire, sotto un cielo nuvoloso, ma asciutto, ho visto le solite piccinerie, tipo quello che in griglia ti viene addosso e ti sposta per guadagnare un posto, camminando a cavalcioni della bicicletta, senza chiedere permesso, né scusa.
Che sempre in griglia ho visto abbracciarsi due persone, due amici che non si vedevano da tempo e si sono ritrovati lì, per caso, ed erano felici di partire insieme. Ho visto un ciclista affranto perché ha forato prima della partenza e subito si è dato da fare per sistemare la ruota con altri che lo aiutavano. E poi lungo il percorso ho visto un partecipante pedalare con una gamba sola perché l’altra era una protesi. E ho provato un’ammirazione sconfinata.
E all’inizio della salita di Selvino ho sentito da dietro chiamare: “Papi, papi!”, era mio figlio, partito in fondo al plotone dei quattromila, che mi aveva raggiunto, ed era felice di superarmi. Ho salito il Selvino stringendo i denti, aggrappato a un gruppetto di ciclisti ben più forti di me, ma che facevano la lunga, e quindi salivano con calma, parlottando fra loro. Alla fine il Selvino l’ho fatto in trentanove minuti e trenta secondi, non male.
E poi giù nella lunga discesa della Val Serina, giù fino al bivio di Ambria. Ho girato a sinistra, ho optato per la corta, ero stanco. In genere, quando vado in bici non mi giro mai indietro, non so in quanti fossimo, so che abbiamo tirato in tre soltanto. E so che i muscoli del quadricipite mi andavano in fiamme, non ne potevo più. Ma quando abbiamo “scollinato” dalla Ramera, ho visto improvvisamente una decina di amatori superarmi e ho sentito uno dietro che smoccolava e diceva che non era corretto, che non avevano tirato un metro e adesso facevano i ganzi. Dentro di me ho sorriso. Lottavano per il duecentoquarantesimo posto.
La mia Gimondi è finita in tre ore e un minuto e ne sono contento, gli anni passano, il tempo macina, ma i miei muscoli, e soprattutto la mia volontà, tengono botta. Grazie a Giuseppe Manenti e alla sua preziosa collaboratrice, grazie a Felice per questa nuova, bella sgroppata, immersi nella umanità ciclistica.
Buone pedalate a tutti.